Corsi, ricorsi, ritorni e tagli

PublishSeptember 8, 2015 7:22 am UTC+0

Settembre 2015, esattamente quasi 8 anni fa, qualcosa forse è cambiato nella vita, sono sarcastico con me stesso invero, avevo perso lavoro da due anni, mi sentivo così spaesato e inutile, quel senso di precarietà che manca anche di un seppur minimo bagliore di speranza, quella percezione cui non vuoi credere, ti forzi a pensare la luce, invece c’è qualcosa che resta scuro, il dimmer non funziona. Ne sono passate di vicende, belle e meno, ora tutto sembra stia tornando dove deve, chissà. Sono contento che il dimmer abbia ripreso a funzionare, le ombre le tengo con me ma cìè anche quella bella luce vivida, fors’anche accecante talvolta, quella luce che rende perfetti i contorni, lividi e definiti, così è.

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Di antistress colorati di rosso

È che mi convinco sempre più che un deterrente allo stress quotidiano, forse, meglio ancora, un elegia fattiva della lentezza è perdersi nel tempo di cucinare, abbandonarsi ad ogni piccolo gesto, ogni minuzia da farsi con lentezza, già il pensiero di cosa, poi la scelta di ogni ingrediente necessario, la preparazione e scelta di cosa usare e come, tutto molto lento, amorevole, carezzevole; come preparare un ragout, tagliare il sedano e le carote e le cipolla e lasciarli soffriggere per un bel tempo, poi la carne in quel soffritto, ancora per almeno una decina di minuti se non più, lasciarla insaporire, aggiungere un po’ di rosso e poi in ultimo il passato fatto in casa, profumi che avvolgono ogni parte della casa, magari ci si può dedicare anche a fare della pasta, pappardelle oggi il desiderio, anche un dolce semplice, tarte tatin non così complicata, bellissimo il profumo di mela caramellata; ché poi ieri sera avevo bevuto alcuni vini sorprendenti, il trebbiamo trebbien 2011 di valter mattoni, non mi è piaciuta la bottiglia dalla forma di una champagnotta ma con una base più ampia, vino di bevuta gradevole un po’ scontroso all’inizio ma di certo affatto banale, più interessanti i due rossi, uno il Montepulciano di mattoni, pieno, denso, un bellissimo effluvio vegetale, un corpo consistente e avvolgente, come il tannino di morbidezza accogliente, l’altro il sangiovese 2010 dell’azienda casale di certaldo, un flash immediato, un impatto acerbo ma anche di banana, un contrasto molto interessante che in bocca rende una gradevolezza stupefacente, una facilità, nell’accezione migliore, di lasciarsi bere, freschezza e acidità, gradazione bassa, ottimo sangiovese. Chissà perché poi ho comprato il 2009 che mi è piaciuto meno, mi sa che stasera vado a prendere quel 2010, da arek del ristorante stella a perugia, bel locale davvero.

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Di prigioni?

“(…) erano solo congetture le sue, come capita, perché – che cosa si conosce della gente, anche della     gente con cui si vive tutti i giorni? Domandò. Non siamo tutti prigionieri? Aveva letto una commedia meravigliosa dove c’era un uomo che scriveva sui muri della prigione; e lei aveva capito che era così la vita – si scrive sui muri della prigione.”

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Dedizioni e Morrisey

È che credo ci sia una inutilità evidente nella dedizione di certe parole a certe persone o forse meglio dire il contrario, la dedizione di certe persone a certune parole, capita esser preda di facili illusioni, o meglio di perfetti sdoppiamenti della vista emotiva che fanno sembrare attraenti anche parole banali, che fanno diventare fascinose idee schematiche e rigide, che rendono un fraintendimento divertente uno sciocco errore; è che diventa evidente lo spreco, inutile, di energia per dedizioni senza senso, neppure quello di una superficie apparentemente piacevole, tutto questo però a posteriori è intuito, a volte l’inizio una strana sensazione di quasi certezze che vengono sepolte per non si sa quale motivo. Forse auto convincimento? Ma di cosa poi? Mi permetto il lusso di un giudizio generico, ci sono persone stupide, a volte lo sono anche io invero ma pensavo piuttosto a chi vuole cercare a tutti i costi un sig. malaussene qualunque per accantonare il perpetuare delle proprie idiozie, io rivendico la mia opacità, la mia melma maleodorante insopportabile per quei nasi così delicati e tutti d’un pezzo che s’ammantano di dovere e morale, a volte capisco poco di me e di come possa non seguire l’istinto a scapito di un vano credito ad un minimo di raziocinio. La regina è morta, lo diceva morrisey, come non credergli.

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Di porte socchiuse, e chiuse

È che a volte porte si chiudono, capita proprio così, come la scelta di un immagine, di un quadro da guardare, all’inizio sembra un caso, mera casualità estetica, i colori, una sorta di somiglianza fisica, poi diventa evidente che nulla è casuale o meglio, raramente il caso è determinante, esiste sempre un motivo sottostante, un ribollire sotto la superficie, quel uomo nudo volge lo sguardo, tutto sé stesso invero, verso il suo dentro buio,volgendo le spalle al tutto che è fuori, fuori sé, l’esterno evidente e determinante il contesto, così il mio sghembo equilibrio mi fa girare spesso. Le porte mai chiuse a chiave, socchiuse , linea buia che è altrove (s)conosciuto, porte socchiuse che lasciano fenditure di luce a bagnare il freddo, tepore tiepido a volta per sopravvivere, rimestevole. Porte socchiuse come ferite in cui mettere le mani e forzare e squarciare tutto, con violenza compiaciuta, ovvero lembi da accudire con attenzione, poggiare le mani e scostare piano, lasciare il tempo per far abituare gli occhi alla luce invadente. La mia una vita come tante, nulla di diverso che non sia già accaduto, chi resiste, chi no, poco male, cosa rende una vita diversa da un’altra? Non importa saperlo. Non so se ho forza, il mio circuito di default lavora a pieno ritmo, molto più di quanto lavori l’altro circuito, quello che soprassiede la vita vigile. Così è.

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Un sogno

Non ricordo l’antefatto, ne ho solo una lieve percezione. Neppure riuscivo a capire che sorta di struttura fosse, pensavo di stare cercando un albergo ma forse quello non lo era, o meglio un albergo speciale. Evidente la precisione di quella frase “Vado a cercare un albergo” ma perché? Dentro l’edificio, mi accoglie un piano terra, un corridoio ampio, diverse persone che passeggiano – particolare questo che successivamente scompare dalla memoria – sembra ci siano diverse scalinate. Mi avvio verso l’ultima in fondo sulla destra, dovrei raggiungere la stanza 20, o 30? Camminando verso la scala noto una signora, appoggiata ad un muro, non so cosa faccia, forse sta lì solo per controllare gli ospiti, uno scambio di sorrisi e, inopinatamente mi viene di dirle “Che gabbia di matti!”, senza capire il perché di quell’affermazione. La scalinata ha una prima rampa di una dozzina di scalini, non molto alti (in seguito mi ritroverò a pensare come disegnarla, la prospettiva, l’altezza, la profondità, amenità del genere), poi sale in senso inverso con una pendenza superiore. Salgo la prima rampa, quella successiva mi trovo a salirla non canonicamente, è diventata una scala di ferro battuto, bellissima, con pioli stretti ma siccome le cose semplici non amiamo, mi vedo arrampicarmi su delle protuberanze esterne alla scala. Nonostante la mia mole non leggera arrivo facilmente al piano superiore, ritrovandomi quasi istantaneamente nella stanza 20 ( o 30, non so). Ho solo la sensazione evidente di passare l’uscio e avere una sorpresa che mi lascia un sorriso beffardo; pensavo fosse la mia stanza di albergo invece mi ritrovavo in una specie di camerata che si sviluppava in obliquo, lunga che neppure immaginavo potesse essere, non credevo potesse esserci una profondità del genere. Molti letti e molte persone dentro, silenziose. Una ragazza bellissima guardava curiosa verso di me, avvicinandosi diventava sempre più invadente con lo sguardo, di una curiosità surreale. Una voce che sembrava provenire dal fondo diceva che lì potevano ospitare solo ragazzi bellissimi; non so perché ma scoppiai a ridere convulsamente, fino a farmi dolere lo stomaco, mentre procedevo all’interno continuavo a ridere forte. Era una situazione buffa e irrituale, al fondo c’era una finestra al di la della quale un balcone minuscolo accessibile solo scavalcando, davanti la quale sembrava ci fosse una brandina stracolma di quelle coperte di lana cotta. Quasi tutti erano seduti sul letto, con più di qualche cuscino dietro la schiena, alcuno attento a cosa succedesse, catatonici, solo la ragazza bellissima mi seguiva con lo sguardo. Anche la voce. La risate non smettevano, al punto da farmi allungare a terra. Non facevo altro che ridere, smodatamente, convulsamente. Mi piacciono gli avverbi. Finito qui.

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È che ho vivida un’immagine, presentatasi da qualche giorno, io e il mio amico Enzo in un’enoteca a bere vino e parlare, fittamente e lungamente ma di certo lentamente, il vino era un australiano, penfold bin 128 coonawarra shiraz, ma potrebbe anche essere il 389, memoria fallace la mia, forse non è neppure importante, neanche l’episodio in sé. Questo ricordo è tornato inopinato quando sono entrato in quel parcheggio, la prima persona che ho visto proprio Enzo, l’occasione un incontro con ex compagni di classe. Ex compagni di classe… ho capito, ma lo sapevo già, che la definizione non può essere più errata, invero con molti eravamo davvero amici, profondamente amici.

È che avevo qualche perplessità, le mie ombre, i miei malumori mal si conciliavano con altri, non avevo alcun desiderio di vedere alcuno. Enzo è stato il primo che ho visto, poi in sequenza altri visi; erano quello in lontananza, visi quasi sconosciuti, dimenticati nella memoria, irriconoscibile per anni di lontananza e ovvi cambiamenti. Direi 28 anni di cambiamenti. Visi e corpi sconosciuti, meglio, non riconosciuti. Poi è stato tutto un rincorrersi di immagini, veloci, lente, emozionanti, leggere, malinconiche, rimpianti, nei visi di alcuni, gioia di altri, forse anche noia in altri. Posso dire che detesto indugiare nella nostalgia, mi piace ricordare cose belle, banalità questa, ma ho preferenza per il qui ora adesso. Ma c’è un ma, in realtà per me non era mera nostalgia, era altro, era una sorta di riconoscimento umano, intimo, profondo, è stato un riconoscere e riprendere fili che ci sono sempre, con tatto riavvicinarsi, guardare dentro quegli occhi, quei visi segnati, scrutare sorrisi per cercare di intuire pensieri e immaginare quale vita c’era stata, finora, in quelle persone. È trascorso tutto molto celermente, troppo. Troppo veloce. Riconoscere e riconoscersi.Due persone mi sono rimaste dentro per motivi diversi, un amico con cui ho studiato a siena, che avevo perso di vista subito per non capisco quale motivo; l’altra un’amica riccia piana di capelli con un bellissimo sorriso, la mia memoria è lenta ma eravamo molto amici e ora sono contento tanto di averla rivista.

Due ma non solo, bello avere rivisto e rivissuto quei visi e quegli occhi. Bello.

Così è.

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